tutto in una notte
Sottotitolo: l’indifferenza e il coraggio di guardarsi allo specchio la mattina dopo.
Inizio questo racconto con delle ovvietà , parlando di quanto è grande Roma, di quanto è complessa come città , di quanti strati sociali, culturali, emozionali esistono e coesistono, e di quante cose noi non ci rendiamo neanche conto.
La chiusura “stagna” dei vari strati, l’uno con l’altro, è sempre stata nota: soprattutto per gli strati più alti, più omologati, questa chiusura viene spesso riassunta sotto la parola “indifferenza“.
Giovedì notte, su via del Quadraro, ho schivato per un pelo una donna, scalza, che camminava a stento in mezzo alla carreggiata, nella parte più buia e più pericolosa di quel tratto di strada che passa sotto l’antico acquedotto.
Ho visto quella figura scomparire nel buio dal retrovisore, dopo il passaggio dei miei fari, così velocemente come mi era comparsa.
Mi sono chiesta se era meglio fermarmi, aiutarla, oppure, con un brivido di timore e di vergonga, sperare che qualcun altro si fermasse al posto mio.
Il tempo di elaborare questo pensiero, e l’automatismo mi aveva già portata sotto casa. Sono andata a letto pensando all’aiuto che non avevo avuto il coraggio di dare a quella persona, e cercando di immaginare dove potesse essere in quell’istante.
Stanotte il fato ha deciso di ricatapultarmi in una situazione analoga: forse per mettermi alla prova di nuovo, forse per aiutarmi a destarmi dal torpore del mio “strato”… Una serata iniziata come un tranquillo sabato sera a cena con le amiche, e a passeggio per Trastevere, si è trasformato in un banco di prova per noi, e nella capacità di guardare con occhi diversi una città superficiale e piena di contraddizioni.
Due ragazzi con seri problemi, le urla, i pianti, i pugni che stendono a terra una ragazza e rompono il setto nasale al ragazzo; noi che assistiamo stordite poi e interveniamo per cercare di capire, di placare… per quel che possiamo.
Ricordo il dolore, il disagio, la tensione palpabile nell’aria, ma soprattutto i ragazzi fighetti e le ragazzine in stretti corpetti di pailettes, con la birra in mano, che passavano silenziosi vicino a noi, con gli occhi bassi. Indifferenza e contraddizione di un popolo, il quale veniva privato di 5 minuti di divertimento al passaggio su quel tratto di Lungo Tevere.
Attimi sospesi, frammenti di suoni, di immagini e sensazioni, ed un senso profondo di impotenza quando i due carabinieri, che abbiamo fatto intervenire, ci hanno spiegato che non potevano far nulla, a parte prendere gli estremi dei documenti, e hanno lasciato che una ragazza in stato confusionale scappasse da sola in giro per la notte romana.
Mi sono chiesta perché accadeva questo. Perché nel momento in cui ho deciso di non essere indifferente ed egoista, nel momento in cui ho voluto provare a dare il mio aiuto (accolandomi tutti i possibili rischi) mi sono dovuta scontrare contro l’indifferenza del sistema. Chi lo deve fare per mestiere (forze dell’ordine e ambulanze) si sono fermati dal dare il loro aiuto, di fronte al primo piccolo “no”, mentre noi ci siamo prese così a cuore il destino di quella ragazza, da sola per Roma.
Allo svanire di tutte quelle figure dal palcoscenico, siamo rimaste sole, elettriche, cercando di analizzare quello a cui avevamo assistito e al quale non avevamo potuto dare alcun contributo.
Quando la serata sembrava arrivata al termine, me ne sono tornata come al mio solito, alla macchina a piedi. Ma ho capito che il mio esame non era concluso, quando ho reincontrato quella ragazza, da sola, che piangeva abbracciata ad un albero.
Dieci secondi di lotta nella mia coscienza: andare dritta per la mia via, o tentare nuovamente di aiutarla? Potevo fare ancora qualcosa per lei? Potevo smentire la delusione provata un’ora prima dalla parte opposta del Lungo Tevere?
Ed eccomi lì, con il telefonino in mano, a rintracciare un suo amico, a parlarle, a perdermi nei suoi tristi occhi azzurri e nelle spire dei suoi discorsi sconclusionati, a temere i suoi abbracci, a sentirmi dire “grazie” mille volte. Cosa mi è costato? Una telefonata, un po’ di tempo vicino a lei aspettando che il suo amico la venisse a prendere: piccole cose che per lei hanno fatto al differenza, fra una notte passata in strada oppure sotto ad un tetto, da qualcuno di cui lei si fidasse.
Altri attimi di tensione, l’intervento di carabinieri in borghese, il ritorno a piedi verso Trastevere e la consegna della ragazza al suo amico (nella speranza di non averla fatta cadere dalla padella alla brace)… ecco finito il mio esame (forse).
Ringrazio quegli angeli custodi che mi hanno scortata, lodandomi ma anche “cazziandomi” per la mia incoscienza nell’aiutare un’estranea… e da qui la certezza che l’indifferenza nasce, non solo dalla chiusura e dalla superficialità , ma anche da un’attitutide diffusa e sponsorizzata anche da chi – indifferente – non lo dovrebbe essere per mestiere.
Ringrazio la mia amica M. che mi ha insegnato, con la sua incoscienza pari alla mia, di non tirarmi indietro, a non rimanere mai uno spettatore inerme.
Ringrazio la mia coscienza, che mi ha fatto arrivare distrutta a casa alle 4 di notte, e che stamane mi ha permesso di avere il coraggio di guardarmi allo specchio.
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