I tormenti di chi arriva in anticipo: proposta contro i ritardatari (a parte Kafka)
Per motivi che spiegherò, chi conosce le tribolazioni dell’attesa non farà mai aspettare nessuno, nemmeno se il suo animo fosse contrassegnato dalla volontà di nuocere al prossimo.
Solo le persone puntuali hanno un’idea della difficoltà di gestire l’affollamento dei demoni quando si aspetta qualcuno che ritarda. So per, diciamo, esperienza diretta, che i nevrotici preferiscono arrivare un’ora prima che dieci minuti dopo. Per questo mi ha molto stupito leggere nei suoi Diari che Kafka che non riusciva ad essere puntuale: mi riservo di considerare che oltre una certa soglia di complicazione una psiche possa faccia il giro e tornare a comportarsi nei limiti della norma: «Arrivo sempre tardi», disse a Gustav Janouch. «Vorrei dominare il tempo, ho la sincera volontà di osservare l’appuntamento, ma il mondo intorno a me o il mio corpo spezza sempre questa volontà per darmi prova della mia debolezza».
Invece, chi è abituato ad aspettare conosce quale realtà malefica diventi il mondo sotto il periscopio dell’attesa […]
Tempo fa ho deciso di sommare tutti i minuti persi arrivando puntuale: dopo sei mesi ero arrivata a numero di ore stordente. […] Una soluzione che mi è stata suggerita: prova ad arrivare in ritardo. Illusi. Cosa farei nel frattempo? Si tratta pur sempre di aspettare, nello specifico che scatti l’ora di un appuntamento, per poi oltrepassarla e presentarsi in ritardo. Ma con quanto ritardo? Mettiamo il caso di un incontro con un ritardatario cronico: è come la tartaruga con Achille. Sarà sempre un po’ più in ritardo di noi. L’attesa a cui lo sottoporremmo sarebbe malsana in primo luogo per noi, che dobbiamo ingegnarci a occupare quel tempo che in condizioni normali sarebbe deputato all’incontro: cosa fare, nascondersi dietro l’angolo e osservare l’altro che arriva, si posiziona, guarda l’orologio, osserva le facce dei passanti, cambia piede d’appoggio, si volta verso una vetrina, sbuffa? Sarebbe bello, sì. E se per una nefasta possibilità l’altro, quello da fare aspettare, arrivasse a sua volta in ritardo, così che il tranello dell’osservarlo si trasforma in una doppia attesa, sfinente, in cui al tempo occorrente a quello per giungere sul luogo dell’appuntamento bisogna sommare quello che serve a farlo aspettare? Nessuna psiche può sostenere una cosa simile. Questi due semplici esempi dovrebbero bastare a a dimostrare che non c’è salvezza, per i destinati all’attesa.
[…] Giunti al punto di ebollizione dell’attesa, si produce il fenomeno per cui quasi si spera che l’altro non arrivi più, per avere ragione di odiarlo definitivamente. E invece quello arriva, quasi sempre.
Ma è davvero così importante che l’altro arrivi in tempo, o che, semplicemente, arrivi? Perché non ce ne andiamo dopo dieci minuti, tutti, sempre, migliorando l’umanità, una volta tenuto conto che la persona che si sta aspettando non è Kafka? […]
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